Il linguaggio militare della pandemia

''Un tiranno ha sconvolto la nostra vita, e si chiama coronavirus. Resisteremo e combatteremo ovunque, nelle case, nei luoghi di lavoro. Aiutando i più deboli e sacrificandoci per un domani migliore. E poi ci rifaremo. Coronavirus, non vincerai. Ne abbiamo cacciati di peggiori". Non sono le parole di un generale, ma del virologo Roberto Burioni, affidate a un tweet del 9 marzo che ha collezionato più di quattromila condivisioni.
Negli stessi giorni l'appello a respingere il tiranno invasore è rimbalzato dalle stanze del potere alle corsie degli ospedali, trovando eco nei titoli dei giornali e negli applausi dai balconi. Il 17 marzo, giorno del 159° anniversario della proclamazione dell'Unità di Italia, il premier Giuseppe Conte ha scritto un post su Facebook che pesca a piene mani nel repertorio della propaganda bellica:
In quei giorni, il più antico degli appelli alla mobilitazione è risuonato in tutte le lingue: siamo in guerra.
"Nous sommes en guerre" aveva scandito per ben sette volte il presidente francese Emmanuel Macron nel suo discorso alla nazione del 12 marzo, evocando una chiamata alle armi di tutti i compatrioti, seppure l'ordine non fosse di presentarsi al fronte, bensì di restare a casa.
Il linguaggio bellico è pervasivo in medicina, sia nella pratica clinica sia nel discorso pubblico, dove le metafore militari diventano predominati. La malattia stessa è identificata come il nemico comune a cui la società dichiara guerra.
Può avvenire in tempo di pace, come accadde il 23 dicembre 1971 quando il presidente statunitense Richard Nixon dichiarò "guerra al cancro", stanziando ingenti risorse per la ricerca biomedica e promettendo che l'America avrebbe presto sconfitto la terribile malattia.
E avviene regolarmente in una situazione di grave emergenza come quella che stiamo vivendo, dove il discorso pubblico si è popolato di medici eroi che combattono in prima linea la COVID-19, mentre nelle retrovie ogni cittadino è chiamato a una guerra di trincea, opponendosi alla diffusione del contagio finché la ricerca medica non sarà in grado di fornirci l'arma finale: un farmaco o un vaccino capace di sconfiggere il nemico invisibile.
Fu lo stesso Pasteur a promuovere le metafore belliche nel linguaggio clinico e nel discorso pubblico delle epidemie, dove sono ormai talmente radicate che non sorprende ritrovarle in bocca ancora oggi ai governanti di mezzo mondo.
"Stiamo combattendo contro un nemico invisibile e vinceremo", ha detto il presidente statunitense Donald Trump nella conferenza stampa del 18 marzo, subito dopo essersi presentato come un presidente "in tempo di guerra".
Ne I promessi sposi (1827), la peste manzoniana è descritta come un'invasione che non si riesce a contenere:
Sebbene le metafore dell'invasione si siano radicate con la teoria dei germi, la loro origine è prescientifica ed è associata allo stretto legame fra le campagne militari e la diffusione della malattie infettive, che in passato venivano spesso portate dalle truppe. Un legame che si è rafforzato ulteriormente a cavallo della prima guerra mondiale, quando le metafore militari hanno trovato largo impiego nelle campagne educative contro la diffusione della sifilide e della tubercolosi tra i soldati.
Il ricorso al linguaggio bellico in medicina e sanità può avere un che di ironico, considerando che la missione della medicina è salvare vite umane.
Ma certo non è privo di conseguenze perché, come argomentano George Lakoff e Mark Johnson nel saggio Metafora e vita quotidiana (2005), le metafore radicate nei nostri linguaggi (tecnici o quotidiani che siano) orientano le percezioni, i pensieri e l'azione. Mediando fra ciò che è noto e ciò che è ignoto, ci consentono di concettualizzare quel che si presenta come nuovo, incerto o minaccioso.
Parafrasando il filosofo francese Paul Ricœur, le metafore servono per descrivere una nuova realtà, ma al tempo stesso finiscono anche per creare una nuova realtà.
Concepire l'epidemia come un'invasione ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, nonostante l'OMS avverta che misure del genere rischiano di peggiorare la situazione. Concepire l'epidemia come un'invasione ha già portato le nazioni europee a barricarsi dentro i propri confini abdicando ai trattati di Schengen, e ciò nonostante l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) avverta che misure del genere non possono fermare la diffusione del virus ma, al contrario, rischiano di peggiorare la situazione, intralciando la collaborazione internazionale e lo scambio di aiuti e materie prime.
In una guerra, tuttavia, niente è considerato eccessivo, nessun sacrificio troppo grande. Ogni sfumatura perde di significato e tutto diventa bianco o nero: o con noi, o contro di noi.
Persino nella quotidianità delle nostre nuove vite non è più ammesso sgarrare: ogni cittadino deve seguire le nuove regole con disciplina marziale giacché persino una corsetta nel parco può diventare un ammutinamento, uscire di casa senza valida motivazione un atto di diserzione.
Addossare la colpa a un altro diverso da noi è una tentazione vecchia come il mondo. Nel saggio La creazione del sacro (1996), lo storico e filologo Walter Burkert afferma come trasformare qualcuno in un capro espiatorio sia un tratto universale delle società umane, antiche e moderne, nei confronti della pestilenza.
Lo stigma accompagna ogni epidemia: il male si abbatte su persone appartenenti a gruppi chiusi, che con i loro comportamenti irresponsabili causano la diffusione del morbo.Lo stigma accompagna ogni epidemia: il male si abbatte su persone appartenenti a gruppi chiusi, che con i loro comportamenti irresponsabili o contrari alla morale causano la diffusione del morbo e mettono a repentaglio l'incolumità di tutti.
La persona sofferente si trasforma così in un untore da emarginare e colpevolizzare per avere trasgredito alle regole sociali, recando offesa a sé e agli altri. Come un marchio d'infamia, il contagio svela e castiga la trasgressione, l'indecenza e l'immoralità.
E come scriveva Sontag in Malattia come metafora (1977):
"Non c'è niente di più punitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è invariabilmente moralistico".
Ecco perché oggi l'OMS ha stabilito di non attribuire nomi agli agenti infettivi che facciano riferimenti a popoli, gruppi di persone, luoghi geografici o specie animali.
Nel 2003, con la SARS, si riuscì a evitare di stigmatizzare la malattia scegliendo in tempi rapidi un nome neutro (SARS è un acronimo di Severe Acute Respiratory Syndrome). Questa volta, invece, quando si è finalmente scelto il nome COVID-19 (una contrazione di coronavirus disease-2019), i termini "virus cinese" o "virus di Wuhan" erano già entrati nelle cronache dei mass media e nel discorso pubblico, contribuendo a diffondere l'idea - sbagliata e pericolosa - che il problema riguardasse soltanto la Cina o le persone provenienti da Wuhan.
Il linguaggio bellico è così pervasivo da farci credere che non si possano immaginare alternative, che invece esistono.
Forse è il momento di chiederci se il linguaggio bellico sia adeguato a descrivere quel che stiamo vivendo, partendo dall'unico punto fermo: le epidemie non sono una guerra. Non c'è nessuna guerra là fuori.
Chi per mestiere è chiamato a raccontare ciò che accade, oggi dovrebbe domandarsi se valga la pena di rappresentare l'epidemia di COVID-19 mediante un linguaggio militare ottocentesco, con il rischio di acuire la conflittualità in un momento in cui avremmo invece bisogno di collaborazione internazionale, solidarietà ed empatia per la sofferenza causata a tante persone. Medici e infermieri sono lavoratori da tutelare, non eroi da spedire al fronte senza protezioni adeguate. E la perdita dei nostri cari non può essere assimilata alla contabilità di un bollettino di guerra. Forse è arrivato il momento di demilitarizzare il linguaggio delle epidemie.
Nessuno ci sta invadendo. Il corpo non è un campo di battaglia. I malati non sono né le vittime né il nemico. Noi - la scienza medica, la società - non siamo autorizzati a passare al contrattacco con qualsiasi mezzo... E per quanto riguarda la metafora in questione, quella militare, io direi, se mi è concesso parafrasare Lucrezio: rendetela a chi fa la guerra.
TRATTO DA: https://www.iltascabile.com/scienze/pandemia-guerra/